martedì 28 aprile 2009

Claudio Monteverdi: Ottavo libro di madrigali guerrieri e amorosi (1638)

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Claudio Monteverdi: Libro VIII

Madrigali guerrieri e amorosi (1638)


Con alcuni opuscoli in genere rappresentativo
che saranno per Brevi Episodi fra canti senza gesto.
In Venetia Appresso Alessandro Vincenti.



1. Altri canti d'amor
2. Or ch'el ciel e la terra e'l vento tace
3. Gira il nemico insidioso
4. Se vittorie sì belle
5. Armato il cor d'adamantina fede
6. Ogni amante è guerrier
7. Ardo, avvampo, mi struggo
8. Combattimento di Tancredi e Clorinda
9. Ballo: Volgendo il ciel
10. Altri canti di Marte
11. Vago augelletto, che cantando vai
12. Mentre vaga Angioletta
13. Ardo e scoprir, ahi lasso, io non ardisco
14. O sia tranquillo il mar
15. Ninfa che scalza il piede
16. Dolcissimo uscignolo
17. Chi vol haver felice e lieto il core
18. Lamento della ninfa
19. Perchè t'en fuggi, o Fillide
20. Non partir, ritrosetta
21. Su su, su pastorelli vezzosi
22. Ballo delle Ingrate





1. Altri canti d'amor (a 6 voci con quattro viole e due violini)
Anonimo


Altri canti d'Amor, tenero arciero,
i dolci vezzi, e i sospirati baci;
narri gli sdegni e le bramate paci
quand'unisce due alme un sol pensiero.

Di Marte io canto, furibondo e fiero,
iduri incontri, e le battaglie audaci;
strider le spade, e bombeggiar le faci,
fo nel mio canto bellicoso e fiero.

Tu cui tessuta han di cesareo alloro
la corona immortal Marte e Bellona,
gradisci il verde ancor novo lavoro,

che mentre guerre canta e guerre sona,
oh gran Fernando, l'orgoglioso choro,
del tuo sommo valor canta e ragiona.



2. Or ch'el ciel e la terra e 'l vento tace (a 6 voci con quatro viole e doi violini)
Francesco Petrarca - "Canzoniere" (sonetto 164)


Or che'l ciel e la terra e'l vento tace,
e le fere e gli augelli il sonno affrena,
Notte il carro stellato in giro mena
e nel suo letto il mar senz'onda giace;

vegghio, penso, ardo, piango; e chi mi sface
sempre m'è inanzi per mia dolce pena:
guerra è 'l mio stato, d'ira et di duol piena;
et sol di lei pensando ò qualche pace.

Così sol d'una chiara fonte viva
move'l dolce e l'amaro ond'io mi pasco;
una man sola mi risana e punge.

E perché 'l mio martir non giunga a riva,
mille volte il dí moro e mille nasco;
tanto da la salute mia son lunge.



3. Gira il nemico insidioso
Giulio Strozzi


Gira il nemico insidioso amore
la rocca del mio core.
Su presto ch'egli qui poco lontano
armi, armi alla mano.

Noi lasciamo accostar ch'egli non saglia
sulla fiacca muraglia,
ma facciam fuor una sortita bella,
butta, butta la sella.

Armi false non son ch'ei s'avvicina
col grosso la cortina.
Su presto, ch'egli qui poco discosto
tutti, tutti al suo posto.

Vuol degl'occhi attaccar il baloardo
con impeto gagliardo.
Su presto ch'egli qui senz'alcun fallo
tutti, tutti a cavallo.

Non è più tempo ohimé, ch'egli ad un tratto
del cor padron s'è fatto,
a gambe, a salvo chi si può salvare,
all'andare, all'andare.

Cor mio non val fuggir, sei morto e servo
d'un tiranno protervo
ch'el vincitor che già dentro alla piazza
grida foco, ammazza.



4. Se vittorie sì belle

Anonimo

Se vittorie sì belle
han le guerre d'amore,
fatti guerrier mio core.
E non temer degl'amorosi strali
le ferite mortali.
Pugna, sappi ch'è gloria
il morir per desio de la vittoria.



5. Armato il cor d'adamantina fede
Anonimo


Armato il cor d'adamantina fede
nell'amoroso regno,
a militar ne vegno,
contrasterò col Ciel e con la sorte,
pugnerò con la morte,
ch'intrepido guerriero
se vittoria non ho, vita non chero.



6. Ogni amante è guerrier
Ottavio Rinuccini


Prima Parte

Ogni amante è guerrier; nel suo gran regno
ha ben Amor la sua milizia anch'egli.

Quella fiorita età, che 'l duro pondo
può sostener dell'elmo e dello scudo
negli assalti d'amor fa prove eccelse.
Né men sconcio è veder tremula mano
per troppo età, vibrar la spada o l'asta,
che sentir sospirar canuto amante.

Ogni amante è guerrier; nel suo gran regno
ha ben Amor la sua milizia anch'egli.

Ambo le notti gelide, e serene
e l'amante e 'l guerrier traggon vegghiando,
questi a salvar del Capitan le tende,
questi a guardar l'amante mura intento.
Non mai di faticar cessa il Soldato,
n é riposar già mai verace amante.

Ambo sormonteran de' monti alpestri
le dure cime, ambo torrenti e fiumi
tra piogge, e nembi varcheran sicuri.
Non del vasto ocean le onde spumanti,
non d'Euro, o d'Aquilon l'orribil fiato
frenar potrà gl'impetuosi cori
se di solcar il mar desio gli sprona.

Chi se non quei che l'amorosa insegna
segue, o di Marte al ciel nottumo e fosco
può la pioggia soffrir, le nevi e 'l vento?
Taccia pur dunque omai, lingua mendace,
di più chiamare otio e lascivia Amore,
ch'amor affetto è sol di guerrier core.

Seconda parte

Io che nell'otio nacqui, e d'otio vissi,
che vago sol di riposata quiete
trapassava non pur l'hore notturne,
ma i giorni interi ancor tra molli piume;
e tra grat'ombre d'ogni cura scarco
il fresco mi godea d'un' aura lieve,
col roco mormorar d'un picciol rivo,
che fea tenor degl'augelletti al canto.

Io stesso poi che generosa cura
di bellissimo Amor mi punse il core,
all'hor che 'l guardo volsi al divan lume,
che svavillar vidd'io da que' begl'occhi,
e 'l suono udì che da rubini e perle
mi giunse al cor d'angelica favella,
sprezzando gli agi di tranquilla vita
non pur chiuggo a i gran dì tra 'l sonno i lumi
ma ben sovente ancor, e stelle e sera,
cangiar vigile amante in Sole, e in Alba.

Spesso carco di ferro all'ombra oscura
me 'n vo sicuro ove 'l desio mi spinge,
e tante soffro ogn'hor dure fatiche
amoroso guerrier, ch'assai men greve
misura in un co 'l valoroso Hispano
tentar pugnando l'ostinato Belga.

0 pur là dove inonda i larghi campi
l'Istro real, cinto di ferro il busto
seguir tra l'armi il chiaro, e nobil sangue
di quel Gran Re ch'or su la sacra testa
posa il splendor del diadema Augusto
di quel Gran Re ch'alle corone, a lauri
alle spoglie, a' trionfi il ciel destina.

O sempre gloriose, o sempre invitto,
segui felice, e fortunato apieno
l'alte vittorie e gloriose imprese
che forse un dì questa mia roca cetra
ritornerà non vil ne' tuoi gran pregi.
All'hor, ch'al suon dell'armi
canterò le tue palme, e' chiari allori.
Quando l'hostil furor depresso e domo
dal tuo invitto valor, dal tuo gran senno,
udrà pien di spavento, e di terrore
l'Oriente sonar belliche squille.

E sovra gran destrier di ferro adorno
di stupor muti i faretrati Sciti,
tra mille e mille Cavalieri e Duci
carco di spoglie, o Gran Fernando Ernesto
t'inchineranno, alla tua invitta spada
vinti, cedendo le corone e i regni.

Terza parte

Ma per qual'ampio Egeo spieghi le vele
sì dal porto lontano ardito Amante?
Riedi che meco il mio cortese amico,
veggio ch'a si gran corso, a sì gran volo
di pallido timor dipinge il viso.

Quarta parte

Riedi ch'al nostro ardir, ch'al nostro canto
ch'hora d'armi, e d'amor confuso suona
scorger ben puote omai, ch'Amore, e Marte
è quasi in cor gentil cortese affetto.




7. Ardo, avvampo, mi struggo (a 8 voci con due violini)
Anonimo


Ardo, ardo avvampo mi struggo; accorrete,
vicini, amici, all'infiammato loco
al ladro, al ladro, al tradimento, al foco;
scale, accette, martelli, acqua prendete;

e voi torri sacrate, anco tacete;
su, su, bronzi, ch'io dal gridar son roco;
dite il periglio altrui non lieve o poco,
e degl'incendi miei pietà chiedete.

Son due belli occhi il ladro, e seco amore
l'incendiario che l'inique faci
dentro la rocca m'avventò del core:

ecco, i rimedi omai vani e fallaci.
Mi dice ogn'un per si beato ardore:
lascia, che'l cor s'incenerisca, e taci.



8. Combattimento di Tancredi e Corinda
Torquato Tasso - dalla "Gerusalemme Liberata" (XII, 52-62; 64-68)


Tancredi, che Clorinda un uomo stima
vol ne l'armi provarla al paragone.
Va girando colei l'alpestre cima
ver altra porta ove d'entrar dispone.
Segue egli impetuoso; onde assai prima
che giunga, in guisa avvien che d'armi suone,
ch'ella si volge e grida: - O tu che porte,
correndo così? -. Risponde: - E guerra e morte -.

- Guerra e morte avrai; - disse - io non rifiuto
darlati, se la cerchi -, e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l'un l'altro il ferro acuto,
ed aguzza l'orgoglio e l'ire accende;
e vansi incontro, a passi tardi e lenti,
che duo tori gelosi e d'ira ardenti.

Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudeste e nell'oblio fatto sí grande,
degne d'un chiaro sol, degne d'un pieno
teatro, opre sarian sí memorande.
Piacciati ch'io ne'l tragga, e'n bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama lor; et tra lor gloria
splenda dal fosco tuo l'alta memoria.

Non schivar, non parar, non pur ritrarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l'ombra e'l furor l'uso de l'arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro, il piè d'orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre in moto,
né scende taglio invan, né punta a voto.

L'onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l'onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s'aggiunge e cagion nova.
D'or in or più si mesce e più ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co' pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.

Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed altrettante
da que' nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico, e non d'amante.
Tornano al ferro, e l'uno e l'altro il tinge
con molte piaghe; e stanco ed anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.

L'un l'altro guarda, e del suo corpo esangue
s 'l pomo de la spada appoggia il peso.
Già de l'ultima stella il raggio langue
al primo albor ch'è in oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé non tanto offeso.
Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
mente ch'ogn'aura di fortuna estolle!

Misero, di che godi? Oh quanto mesti
fiano i trionfi ed infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Così tacendo e rimirando, questi
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,
perchè il suo nome l'un l'altro scoprisse:

- Nostra sventura è ben che qui s'impieghi
tanto valor, dove silenzio il copra.
Ma poi che sorte rea vien che ci neghi
e lode e testimon degno de l'opra,
pregoti (se fra l'armi han loco i preghi)
che'l tuo nome e 'l tuo stato a me tu scopra,
acciò ch'io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la mia vita onore -.

Risponde la feroce: - Indarno chiedi
quel ch'ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu innanzi vedi
un di quei due che la garn torre accese -.
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
e: - In mal punto il dicesti;
il tuo dir e 'l tacer di par m'alletta,
barbaro discortese, a la vendetta -.

Torna l'ira ne' cori, e li trasporta,
benché debili in guerra. Oh fera pugna,
u' l'arte in bando, u' già la forza è morta,
ove, in vece, d'entrambi il furor pugna!
Oh che sanguigna e spaziosa porta
fa l'una e l'altra spada, ovunque giugna,
ne l'arme e ne le carni! e se la vita
non esce, sdegno tienla al petto unita.

Ma ecco omai l'ora fatale è giunta
che 'l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s'immerge, e 'l sangue avido beve;
e la veste, che d'or vago trapunta,
le mammelle stringea tenera e leve,
l'empie d'un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e 'l piè le manca egro e languente.

Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme,
parole ch'a lei novo spirto ditta,
spirto di fé, di carità, di speme:
virtù ch'or Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vole in morte ancella.

- Amico, hai vinto: lo ti perdon... perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
e l'alma sí; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch'ogni mia colpa lave -.
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.

Poco quindi lontan nel sèn del monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v'accorse e l'elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentì la man mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!

Non morì già che sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia il cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l'acqua a chi co 'l ferro uccise.
Mentre egli il suon de' sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
die parea: «S'apre il cielo; io vado in pace».



9. Volgendo il ciel (Ballo)
(Ottavio Rinuccini, con modifiche d'ignoto)


Introduzione al Ballo: entrata con due violini
Volgendo il ciel (a voce sola)


Volgendo il ciel per l'immortal sentiero,
le ruote dela luce alma e serena,
un secolo di pace il Sol rimena
sotto il Re novo del Romano Impero.

Su, mi si rechi ormai del grand'Ibero
profonda tazza, inghirlandata e piena
che, correndomi al cor di vena in vena,
sgombri dall'alma ogni mortal pensiero.

Venga la nobil cetra: il crin di fiori
cingimi, o Filli: io ferirò le stelle
cantando del mio Re gli eccelsi allori;

e voi che per beltà, Donne e Donzelle,
gite superbe d'immortali onori,
movete al mio bel suon le piante snelle.

Il Ballo
Movete al mio bel suon (a 5 voci con due violini)


Movete al mio bel suon le piante snelle
sparso di rose il crin leggiadro e biondo;
e, lasciato dall'Istro il ricco fondo,
vengan l'umide Ninfe al ballo anch'elle.

Fuggan in si bel di nembi e procelle
d'aure odorate al mormorar giocondo;
fatt'Eco al mio cantar, rimbombi il mondo
l'opre di Ferdinando eccelse e belle.

Ei l'armi cinse, e su destrier alato
corse le piaggie, ei su la terra dura
la testa riposò sul braccio armato;

là torri eccelse e là superbe mura
al vento sparse, e fe' vermiglio il prato,
lasciando ogn'altra gloria al mondo oscura.



10. Altri canti di Marte (a 6 voci con due violini)
Giambattista Marino


Altri canti di Marte, e di sua schiera
gli arditi assalti, e l'honorate imprese,
le sanguigne vittorie, e le contese,
i trionfi di morte horrida, e fera.

Io canto, Amor, da questa tua guerriera
quant'hebbi a sostener mortali offese,
com'un guardo mi vinse, un crin mi prese:
historia miserabile, ma vera.

Due begli occhi fur l'armi, onde traffitta
giacque, e di sangue invece amaro pianto
sparse lunga stagion l'anima afflitta.

Tu, per lo cui valor la palma, e'l vanto
hebbe di me la mia nemica invitta,
se desti morte al cor, dà vita al canto.



11. Vago augelletto
Francesco Petrarca - dal "Canzoniere" (sonetto 353)


Vago augelletto che cantando vai
over piangendo il tuo tempo passato,
vedendoti la notte e 'l verno a lato
e 'l dì dopo le spalle e i mesi gai.

Sì come i tuoi gravosi affanni sai
così sapessi il mio simile stato,
verresti in grembo a questo sconsolato
a patir seco i dolorosi guai.



12. Mentre vaga Angioletta
Giovanni Battista Guarini


Mentre vaga Angioletta
ogni anima gentil cantando alletta,
corre il mio core, e pende
tutto dal suon del suo soave canto;
e non so come intanto
musico spirto prende
fauci canore, e seco forma e finge
per non usata via
garrula, e maestrevole armonia.
tempra, d'arguto suon pieghevol voce,
e la volve, e la spinge
con rotti accenti, e con ritorti giri
qui tarda, e là veloce;
e tall'hor mormorando
in basso, e mobil suono, ed alternando
fughe, e riposi, e placidi respiri,
hor la sospende, e libra,
hor la preme, hor la rompe, hor la raffrena;
hor la saetta, e vibra,
hor in giro la mena,
quando con modi tremuli, e vaganti,
quando fermi, e sonanti.
Così cantando e ricantando, il core,
o miracol d'amore,
è fatto un usignolo,
e spiega già per non star mesto il volo.



13. Ardo e scoprir, ahi lasso, io non ardisco
Anonimo


Ardo e scoprir, ahi lasso, io non ardisco
e quel che porto nel sen, rinchiuso ardore,
e tanto più dolente ogni hor languisco
quanto più sia celato il mio dolore.

Fra me tal'hor mille disegni ordisco
con la lingua discior anco il timore.
E all'hor fatto ardito io non pavento
gridar soccorso al micidial tormento.

Ma s'avvien ch'io m'appresso a lei davante
per trovar al mio mal pace e diletto,
divengo tosto pallido in sembiante,
e chinar gl'occhi a terra costretto.

Dir vorrei, ma non oso; indi tremante
comincio, e mi ritengo alfin l'affetto.
S'aprir, nuntia del cor la lingua vole,
si troncan su le labbra le parole.



14. O sia tranquillo il mare
Anonimo


O sia tranquillo il mare o pien d'orgoglio,
mai da quest'onde io non rivolgo il piede;
io qui t'aspetto e qui de la tua fede,
tradito amante, mi lamento e doglio.

Spesso salir su queste rupi io soglio
per vedere se il tuo legno ancor se'n riede;
quivi m'assido e piango, onde mi crede
il mar un fonte e 'l navigante un scoglio.

E spesso ancor t'invio per messaggeri,
a ridir la mia pena e 'l mio tormento
dell'aria vaga i zeffiri leggieri,

ma tu non torni, o Filli, e 'l mio lamento
l'aura disperge, e tal mercè ne speri
chi fida a donna il cor e i prieghi al vento.



15. Ninfa che scalza il piede
Anonimo


Ninfa che, scalza il piede e sciolta il crine,
te ne vai di doglia in bando
per queste piagge lieta cantando
e ballando,
non scuoti all'erbe le fresche brine.

Qui, deh! meco t'arresta, ove di fiori
s'inghirlanda il crin novello
questo ch'imperla fresco ruscello
bel pratello
co' suoi correnti limpidi umori.

Dell'usate mie corde al suon potrai
sotto l'ombra di quest'orno
a tempo il passo mover d'intorno,
né del giorno
faran te bruna gli ardenti rai.

Ma senza pur mirarmi affretta il passo
dietro forse a Lillo amato.
Ah! Che ti possa veder cangiato
quel pie ingrato,
pera fugace, in un duro sasso!



16. Dolcissimo uscignolo (a 5 voci, cantato a voce piena, alla francese)
Giovanni Battista Guarini


Dolcissimo uscignolo,
tu chiami la tua cara compagnia
cantando: «Vieni, vieni, anima mia».
A me canto non vale,
e non ho come tu da volar ale.
O felice augelletto,
come nel tuo diletto
ti ricompensa ben l'alma natura:
se ti negò saver, ti diè ventura.



17. Chi vol haver felice e lieto il core (a 5 voci, cantato a voce piena, alla francese)
Giovanni Battista Guarini


Chi vol haver felice e lieto il core,
non segua il crudo Amore,
quel lusinghier ch'ancide
quando più scherza e ride;
ma tema di beltà, di leggiadria
l'aura fallace e ria.
Al pregar non risponda, alla promessa
non creda; e se s'appressa,
fugga pur, che baleno è quel ch'alletta,
né mai balena Amor, se non saetta.



18. Lamento della ninfa
Ottavio Rinuccini


Modo di rappresentare il presente canto. Le tre parti, che cantano fuori del pianto della Ninfa, si sono così separatamente poste, perché si cantano al tempo della mano; le altre tre parti che vanno commiserando in debole voce la Ninfa, si sono poste in partitura, accio seguitano il pianto di essa, qual va cantato a tempo dell'affetto del animo, e non a quello de la mano.

Coro
Non aveva Febo ancora recato al mondo il dì,
ch'una donzella fuora del proprio albergo uscì;
sul pallidetto volto scorgea se il suo dolor:
spesso gli venia sciolto un gran sospir dal cor.
Sì, calpestando fiori, errava hor qua, hor là;
i suoi perduri amor così piangendo va:

La Ninfa
Amor
(dicea)
Amor
(il ciel mirando, il piè fermò)
Amor, amor,
dov'è la fe'
ch'el traditor giurò?
(miserella)
Fa' che ritorni il mio
amor com'ei pur fu,
tu m'ancidi ch'io
non mi tormenti più;
(Miserella ah più, no,
tanto gel soffrir non può)
Non vo' ch'ei più sospiri
se non lontan da me.
No no, che i suoi martiri
più non dirammi, affé!
(Ah miserella. Ah più no no)
Perché di lui mi struggo?
Tutt'orgoglioso sta;
che sì, che sì, s'il fuggo
ancor mi pregherà.
(Miserella, ah, più non
tanto gel soffrir non può)
Se ciglio ha più sereno
colei che il mio non è,
già non rinchiude in seno
Amor sì bella fe'.
(Miserella, ah, più non
tanto gel soffrir non può)
Nè mai sì dolci baci
da quella bocca havrai
nè più soavi... ah taci,
taci, che troppo il sai!
(Miserella!)
Sì, tra sdegnosi pianti,
spargea le voci al ciel:
così ne' cori amanti
mesce Amor fiamma e gel.


19. Perché te 'n fuggi, o Fillide?
Anonimo


Perché te 'n fuggi, o Fillide?
Ohimè, deh, Filli ascoltami
e quei belli occhi voltami:
già belva non son io né serpe squallido;
Aminta io son, se ben son magro e pallido.

Queste mie calde lagrime
che da quest'occhi ognor si veggon piovere
han forza di commuovere
ogni più duro cor spietato e rigido,
ma' l tuo non già, ch'è più d'un ghiaccio frigido.

Mentre spargendo a l'aura pianti e lamenti,
indarno il cor distruggesi,
Filli più ratta fuggesi,
né i sospir che dal cor, non voci o prieghi
i piè fugaci arrestano.



20. Non partir, ritrosetta
Anonimo


Non partir, ritrosetta,
troppo lieve e incostante.
Senti me: non fuggir, aspetta, aspetta,
odi il pregar del tuo fedel amante.
Tu non senti i lamenti?
Ah, tu fuggi, io rimango,
ah, tu ridi ed io piango.

L'alma vola disciolta,
teco parte il mio core.
Ferma il piè, non fuggir, ascolta ascolta:
torna a gioir almen d'un che sì more.
Tu non miri i martiri?
Tu non odi, io ti chiamo,
tu mi sprezzi, io ti bramo.

Tu crudel più mi offendi
quanto più sei fugace.
Già dal sen l'alma fugge: attendi, attendi,
se il mio languir a te cotanto piace.
Tu, non ridi o, non ridi,
tu mi sprezzi, io t'adoro,
tu mi lasci ed io moro.



21. Su, su pastorelli vezzosi
Anonimo


Su, su, su, pastorelli vezzosi,
correte, venite
a mirar, a goder l'aure gradite,
e quel dolce gioir,
ch'a noi porta ridente
la bell'alba nascente.
Mirate i prati
pien di fiori odorati
ch'al suo vago apparir ridon festosi.

Su, su, su, augelletti canori,
sciogliete, snodate
al cantar, al garrir, le voci amate
del sol che i nostri monti indora,
e sui rametti
pien di vaghi fioretti
del suo leggiadro crin dite gli honori.

Su, su, su, fonticelli loquaci,
vezzosi, correte
a gioir, a scherzar come solete
di quai splendor si veste
e di quai lampi
coloriti son i campi
che promettono ai cor gioie veraci.



22. Ballo delle Ingrate
Ottavio Rinuccini


[Nota: il testo di questa composizione di Monteverdi, rappresentata in occasione del matrimonio di Francesco Gonzaga di Mantova e Margherita di Savoia, è stato pubblicato non solo dal librettista Rinuccini nel 1607 ma anche dall'intendente di corte di Mantova Federico Follino nel suo Compendio delle sontuose feste fatte l'anno 1608 nella citta di Mantoua (pp.74-124) aggiungendo anche dettagliate descrizioni della esecuzione dell'epoca, inizialmente chiamata "Mascherata delle Ingrate". Pur essendo la partitura musicale che ci rimane unicamente quella della edizione a stampa del 1638, riportiamo qui questa versione aggiungendovi le descrizioni pubblicate dal Follino].

Prima rappresentazione alle nozze di Francesco Gonzaga, erede del trono ducale di Mantova con Margherita, infante di Savoia, 1608, a Mantova.
Aveva il Duca stabilito di rappresentar quella sera del mercoledì [4 giugno 1608] nel Teatro della Comedia, un balletto di molto bella invenzione, opera del Sig.r Ottavio Rinuccini, nel quale interveniva il Duca e il Prencipe sposo con sei altri cavalieri e con otto dame delle principali della città così in nobiltà come in bellezza ed in leggiadria di ballare, talché in tutto adempivano il numero di sedici. Perloché ragunatisi colà dentro i prencipi, le principesse, gli ambasciatori e le dame, e quella nobiltà che poté capire il luogo, si collocarono ne' gradi che, formando un mezzo cerchio dalla parte del teatro opposta al fianco, s'ergevano dal basso fino alla sommità di esso, lasciando vuoto quel piano di mezzo, ch'è tra la scena e detti gradi, per il facimento del balletto.
In quella parte di muro, che dalla destra parte del teatro è fra il confin de' gradi e la scena, era un gran palco dove furono collocati i gentiluomini degli ambasciatori, e dirimpetto a quello se ne vedeva un altro di forma eguale, in cui stava un gran numero di musici con istromenti diversi da corda e da fiato.
Or poiché furono colà dentro tutti agiatamente accomodati, dato il segno con uno strepito spaventoso sotto il palco di tamburi discordati, s'alzò la tela con quella velocità mirabile con cui alzossi nella Comedia, e nel mezzo del palco si vide una gran bocca di un'ampia e profondissima caverna, la quale, stendendosi oltre i confini della prospettiva, pareva che andasse tanto in là che non potesse giunger umana vista per iscoprirne il fine.
Era quella caverna circondata dentro e d'intorno d'ardente fuoco, e nel più cupo di essa, in parte assai profonda e lontana dalla sua bocca, si vedeva una gran voragine, dentro alla quale ruotavano globi d'ardentissime fiamme, e per entro ad essa innumerabil mostri d'Inferno, tanto orribili e spaventosi, che molti non ardirono di fissar colà dentro il guardo. Parve cosa orrenda e mostruosa il veder quella infernal voragine piena di tanto fuoco e d'immagini così mostruose; ma ben fece maravigliar più le genti il veder dinanzi a quella infocata bocca dalla parte di fuori, dove risplendeva una certa poca luce caliginosa e mesta, la bella Venere, ch'aveva per mano il suo bel figlio Amore, la quale al suono di dolcissimi stromenti ch'erano dietro alla scena, cantò con voce molto soave gl'infrascritti versi in dialogo con Amore.


AMORE
De l'implacabil Dio
Eccone giunt'al Regno,
Seconda, o bella Madre, il pregar mio.

VENERE
Non tacerà mia voce
Dolci lusinghe e prieghi
Finche l'alma feroce
Del Re severo al tuo voler non pieghi.

AMORE
Ferma, Madre, il bel piè, non por le piante
Nel tenebroso impero,
Ché l'aer tutto nero
Non macchiass'il candor del bel sembiante:
Io sol n'andrò nella magion oscura,
E pregand'il gran re trarotti avante.

VENERE
Va pur come t'agrada. Io qui t'aspetto,
Discreto pargoletto.

(Sinfonia)

Finite ch'ebbe Venere queste ultime parole, Amore se n'entrò tutto ardito entro quella profonda voragine, passando tra fuochi e fiamme senza patir alcuna offesa; e intanto Venere, volgendosi agli spettatori e riguardando le dame che gli erano a fronte, cantò di questa maniera:

Udite, Donne, udite! I saggi detti
Di celeste parlar nel cor servate:
Chi, nemica d'amor, nei crudi affetti
Armerà il cor nella fiorita etate,
(Sinfonia)
Sentirà come poscia arde a saetti
Quando più non avrà grazia e beltate,
E in vano risonerà, tardi pentita,
Di lisce e d'acque alla fallace aita.

Sul fine del suo bel canto, si vide uscir dalla parte destra di quella orribile caverna Plutone, in vista formidabile e tremenda, con abiti quali gli sono attribuiti da' poeti, ma però carichi d'oro e di gioie; il quale, venendonese con Amore dinanzi a Venere, parlò cantando in questa guisa, rispondendosi e replicandosi l'un l'altro come segue:

PLUTONE
Bella madre d'Amor, che col bel ciglio
Splender l'Inferno fai sereno e puro,
Qual destin, qual consiglio
Dal ciel t'ha scorto in quest'abisso oscuro?

VENERE
O de la morte innumerabil gente
Tremendo Re, dal luminoso cielo
Traggemi a quest'orror materno zelo:
Sappi che a mano a mano
L'unico figlio mio di strali e d'arco
Arma, sprezzato arcier, gli omer e l'ali.

PLUTONE
Chi spogliè di valore l'auree saette
Che tante volte e tante
Giunsero al cor de l'immortal Tonnante?

VENERE
Donne, che di beltate e di valore
Tolgono alle più degne il nome altero,
Là, nel Germano Impero,
Di cotanto rigor sen van armate,
Che di quadrell'aurate
E di sua face il foco
Recansi a scherzo e gioco.

PLUTONE
Mal si sprezza d'Amor la face e'l telo.
Sallo la terra e'l mar, l'inferno e'l cielo.

VENERE
Non de' più fidi amanti
Odon le voci e i pianti.
Amor, Costanza, Fede
Non pur ombra trovar può di mercede.
Questa gli altrui martiri
Narra ridendo. E quella
Sol gode d'esser bella
Quando tragge d'un cor pianti e sospiri.
Invan gentil guerriero
Move in campo d'honor, leggiadro e fiero.
Indarno ingegno altero
Freggia d'eterni carmi
Beltà che non l'ascolta e non l'aprezza.
Oh barbara fierezza!
Oh cor di tigre e d'angue!
Mirar senza dolore
Fido amante versar lagrime e sangue!
E per sua gloria, e per altrui vendetta
Ritrovi in sua faretra Amor saetta!

PLUTONE
S'invan su l'arco tendi
I poderosi strali,
Amor che speri, e che soccorso attendi?

AMORE
Fuor de l'atra caverna
Ove piangono invan, di Speme ignude,
Scorgi, Signor, quell'empie e crude!
Vegga, vegga sull'Istro
Ogni anima superba
A qual martir cruda beltà si serba!

PLUTONE
Deh! Chi ricerchi, Amor!
Amor, non sai che dal carcer profondo
Cale non è che ne rimeni al mondo?

AMORE
So che dal bass'Inferno
Per far ritorno al ciel serrato è il varco.
Ma chi contrasta col tuo poter eterno?

PLUTONE
Saggio signor se di sua possa è parco.

VENERE
Dunque non ti rammenti
Che Proserpina bella a coglier fiori
Guidai sul monte degli eterni ardori?
Deh! Per quegli almi contenti,
Deh! Per quei dolci amori,
Fa nel mondo veder l'ombre dolenti!

PLUTONE
Troppo, troppo possenti
Bella madre d'Amore,
Giungon del tuo pregar gli strali al cuore!
Udite! Udite! Udite!
O dell'infernal corte
Fere ministre, udite!

Al chiamar di Plutone, uscirono di quella caverna molte Ombre orribili e mostruose, che versavano fiamme da varie parti con molto terrore altrui; e presentateglisi avanti con voce orrenda, ma però armoniosa, dissero:

OMBRE D'INFERNO
Che vuoi? Ch'imperi?

E Plutone soggiunse:

PLUTONE
Aprite aprite aprite
Le tenebrose porte
De la prigion caliginosa e nera!
E de l'Anime Ingrate
Trahete qui la condannata schiera!

Mentre quell'Ombre crudeli andarono ad eseguir la mente di Plutone ed a condur fuori la condannata schiera delle Donne Ingrate che doveva fare il balletto, Venere, rivolta inverso Plutone, cantò i seguenti versi:

VENERE
Non senz'altro diletto
Di magnanimi Regi
Il piè porrai ne l'ammirabil tetto!
Ivi, di fabri egregi
Incredibil lavoro,
O quanto ammirerai marmorii fregi!
D'ostro lucent' e d'oro
Splendon pompose le superbe mura!
E per Dedalea cura,
Sorger potrai tra l'indorate travi,
Palme e trionfi d'innumerabil Avi.
Ne minor meraviglia
Ti graverà le ciglia,
Folti Theatri rimirando e scene,
Scorno del Tebro e de la dotta Atene!

Appena ebbe Venere fornite queste parole, ch'Amore scorse per entro quella caverna comparir quelle infelici, onde rivolgendosi alla madre, quasi che si turbasse di quella miserabile vista, gliele additò, affrettandola alla partita col canto delle seguenti parole:

AMORE E VENERE
Ecco ver noi l'adolorate squadre
Di quell'alme infelici.

Alle parole dell’Amore, Venere si rivolse inverso l’ardente caverna, e vedute quelle meschine in atto così miserabile, con pietosa voce riprese il canto:

Oh miserelle!
Ahi vista troppo oscura!
Felici voi se vi vedeva il fato
Men crude e fere, o men leggiadre e belle!

Onde Plutone, veduti Venere e Cupido così turbati, esortò loro a partirsi di là, affrettando di poi i passi di quelle misere con voce sonora e minacciosa:

PLUTONE
Tornate al bel seren, celesti Numi!
Movete meco, voi d'Amor ribelle!

Mentre Plutone così disse, Venere, preso per la mano Amore, partì da quelle lagrimose piagge. E la condennata schiera, camminando per quella voragine tra le fiamme e il fuoco, uscì dalla spelonca, rimirando con molto cordoglio e con atti degni di gran compassione l’aere e la luce.
Erano quelle anime condannate vestite con abiti di foggia molto stravagante e bella che si stendevano infino a terra, composti di un ricco drappo che fu tessuto apposta per tale effetto. Egli era di color berettino, misto di sottilissime fila d’argento e d’oro con tanto artifizio, che a riguardarlo pareva cenere mischiata con ardenti faville; e si vedevano così le vesti come i manti (che in maniera molto bizzarra pendevano loro dalle spalle) ricamati di spesse fiamme conteste di seta e d’oro, tanto ben disposte che ciascheduno stimava che ardessero; e tra dette fiamme si potevano veder con bellissimo ordine consparsi carbonchi, rubini e altre gemme che rassomigliavano l’accese braci.
Di queste gioie si vedevano intrecciati ancora i lor capelli che, parte accorciati e parte sparsi con mirabil arte, parevano distrutti e abbruciati, e benché fossero tutti coperti di cenere, nondimeno mostravano tra la cenere e il fumo un certo splendore, dal qual si poteva molto ben conoscere che per altro tempo furono come fila d’oro biondissimi; e le loro facce, mostrando alcuni segni di già passata bellezza, erano in guisa trasformate e pallide che apportavano terrore e compassione insieme a riguardarle.
Calarono queste, ma però con gran dolore significato per gesti, a due a due per una piacevole discesa dal palco, accompagnando i passi col suono di una gran quantità di strumenti che suonavano un’aria da ballo malinconiosa e flebile; e giunte in sul piano del teatro, fecero un balletto così bello e così vago, con passi, con moti e con atti ora di dolore e ora di disperazione, e quando con gesti di misericordia e quando di sdegno, talor abbracciandosi come se avesser le lagrime per tenerezza sugli occhi , talor percuotendosi gonfie di rabbia e furore. Vedevansi ad or ad ora abborrir i loro aspetti e fuggirsi l’un l’altra con timorose maniere, e seguitarsi da poi con minaccioso sembiante, azzuffarsi insieme, dimandarsi perdono e mille altri moti rappresentati con tale affetto e con tanta naturalezza, che ne restarono in modo impressi i cuori de’ riguardanti, che non fu alcuno in quel teatro ch’alla mutazione delle passioni loro non sentisse muoversi e conturbarsi in mille guise il cuore.
Poi ch’ebbero queste Ingrate danzato tanto, che intrecciandosi in vari modi si ritrovarono occupar tutto lo spazio di quel piano, si posero ad un cenno di Plutone, ch’era fermo dinanzi al palco, in ischiera lungh’esso, otto per parte, ed egli muovendosi pel mezzo di loro con molta gravità verso le principesse ch’erano in prospettiva dirimpetto il palco, poiché si fu lor fatto vicino, pieno d’orrida maestà, prese a cantare, accompagnato dal suono, con modo assai cortese i seguenti versi:


(Sinfonia)

PLUTONE
Dal tenebroso orror del mio gran Regno
Fugga, Donna, il timor dal molle seno!
Arso di nova fiamma al ciel sereno
Donna o Donzella per rapir non vegno.

E quando pur de vostri rai nel petto
Languisce immortalmente il cor ferito,
Non fora disturbar Plutone ardito
Di cotanta Regina il lieto aspetto.

Donna al cui nobil crin non bassi fregi
Sol pon del Cielo ordir gli eterni lumi,
Di cui l'alma virtù, gli aurei costumi
Farsi speglio dovrian Monarchi e Regi.

Scese pur dianzi Amor nel Regno oscuro.
Preghi mi fè ch'io vi scorgessi avanti
Queste infelici, ch'in perpetui pianti
Dolgonsi invan che non ben sagge furo.

Antro è la giù, di luce e d'aer privo,
Ove torbido fumo ogni hor s'aggira:
Ivi del folle ardir tardi sospira
Alma ch'ingrata hebbe ogni amante a schivo.

Indi le traggo e ve l'addito e mostro,
Pallido il volto e lagrimoso il ciglio,
Per che cangiando homai voglie e consiglio
Non piangete ancor voi nel negro chiostro.

Vaglia timor di sempiterni affanni,
Se forza in voi non han sospiri e prieghi!
Ma qual cieca ragion vol che si nieghi
Qual che malgrado alfin vi tolgon gli anni?

Frutto non è di riserbarsi al fino.
Trovi fede al mio dir mortal beltate.
Poi rivolto al Anime Ingrate, così dice:
Ma qui star non più lice, Anime Ingrate.
Tornate al lagrimar nel Regno Inferno!

In sul fine di queste parole, ripigliando gli stromenti una nuov’aria da ballo più flebile dell’altra, ricominciarono quelle Ingrate un altro balletto con atti pieni di maggior disperazione e di maggior cordoglio, e con mille intrecciamenti e mille variazioni d’affetti si vennero avvicinando a poco a poco al palco, e salendo sopra di esso con lo stess’ordine col quale n’erano discese, poiché furono tutte colà di sopra, Plutone con voce d’orrore e di spavento disse cantando:

Tornate al negro chiostro,
Anime sventurate,
Tornate ove vi sforza il fallir vostro!

Appena ebbe così detto Plutone, ch’una delle Ingrate, ch’era rimasta sul palco quando le altre discesero a ballare, proruppe in così lagrimosi accenti accompagnati da sospiri e da singulti, che non fu cuor di donna così fiero in quel teatro che non versasse per gli occhi qualche lagrima pietosa. Le parole ch’ella disse nel suo bel pianto furono le seguenti:

UNA DELLE INGRATE
Ahi troppo Ahi troppo è duro!
Crudel sentenza, e vie più crude pene!
Tornar a lagrimar nell'antro oscuro!
Aer sereno e puro,
Addio per sempre! Addio per sempre,
O cielo, o sole! Addio lucide stelle!
Apprendete pietà, donne e donzelle!

CORO DELLE INGRATE
Apprendete pietà, Donne e Donzelle!

UNA DELLE INGRATE
Al fumo, a gridi, a pianti,
A sempiterno affanno!
Ahi! Dove son le pompe, ove gli amanti!
Dove, dove sen vanno
Donne che si pregiate al mondo furo?
Aer sereno e puro,
Addio per sempre! Addio per sempre,
O cielo, o sole! Addio lucide stelle!

CORO DELLE INGRATE
Apprendete pietà, donne e donzelle!

Nel fine di così bel pianto, se n’entraron di nuovo, ma però in modo che vi parevano spinte da viva forza, nell’ardente caverna; né prima furono trangugiate da quella che, chiudendosi la sua gran bocca, restò la scena con una bella e dilettosa prospettiva.